top of page
Immagine del redattoreTeam Icaroe

Come nasce un farmaco

Quante volte avete preso un farmaco nella vostra vita? Vi immaginate come sarebbe non avere a disposizione antibiotici? Antidolorifici? Chemioterapici? 


I farmaci sono un qualcosa con cui conviviamo e che ci aiutano in diverse situazioni, ma che spesso diamo per scontati. Come nasce un farmaco? Quali caratteristiche deve avere per essere venduto e considerato “sicuro”? E cosa spinge le industrie a creare nuovi farmaci? Scopriamolo insieme in questo articolo!

Di cosa parleremo?

  1. Perchè nasce un farmaco

  2. Cos’è una sperimentazione e quali sono le varie fasi

  3. Cosa differenzia un farmaco generico da uno “di marca”?

  4. Risvolti economici dietro l’industria del farmaco

  5. I cosiddetti “Farmaci orfani”


Perché nasce un farmaco

La nascita di un farmaco può avere diverse ragioni, la più evidente è la creazione di una sostanza (principio attivo) che sia efficace nel trattare una determinata malattia.

Altre ragioni possono essere: migliorare dei farmaci già esistenti che non permettono un controllo ottimale della condizione di salute, oppure ci può essere la necessità di creare farmaci con meno effetti collaterali di quelli già esistenti, o ancora, soprattutto nel caso degli antibiotici, ci si trova spesso a dover creare nuove molecole perché quelle disponibili non funzionano più a causa della resistenza sviluppata dai batteri.


A parte alcuni rari casi di scoperte casuali e fortunate, generalmente un nuovo farmaco nasce dalla scoperta di un bisogno di salute e dall’identificazione da parte dei ricercatori di quello che viene chiamato “bersaglio farmacologico”. Si tratta di un un meccanismo o un processo biologico su cui si possa intervenire per curare o prevenire una malattia.


Ogni malattia però è diversa e possiamo distinguere la creazione di farmaci destinati a patologie molto comuni a quelli destinati a patologie rare, talmente rare che spesso non sono abbastanza rilevanti per le industrie farmaceutiche che investono in ricerca. Chiaramente uno degli obiettivi di chi investe denaro, tempo e risorse nella creazione di farmaci è anche, come per tutti coloro che producono qualcosa, avere un ritorno economico. Questo ritorno economico è maggiore sicuramente per i farmaci destinati ad un uso frequente e comune e quindi associati a malattie molto presenti nella popolazione. Investire milioni o miliardi nella creazione di un farmaco destinato a una patologia che colpisce poche persone non è “conveniente” dal punto di vista puramente economico per chi lo produce.

Si parla in questo caso di farmaci orfani, destinati alla cura delle malattie talmente rare da non consentire la realizzazione, da parte delle aziende farmaceutiche, di ricavi che permettano di recuperare i costi sostenuti per il loro sviluppo. Sono farmaci che non vengono quindi distribuiti dall’industria farmaceutica per ragioni economiche, ma che rispondono a un bisogno di salute pubblica. L’azienda che investe in questi farmaci decide quindi di perderci in termini economici perché riconosce l’importanza di questo farmaco per la cura di patologie spesso gravi e dimenticate.


Cos’è una sperimentazione

Una volta identificato un bisogno di salute per cui non esiste un farmaco specifico oppure i farmaci che già esistono possono essere migliorati si decide di creare un nuovo farmaco. Ma come si decide se un farmaco è davvero efficace e, soprattutto, non è pericoloso per la salute? La molecola chimica che aspira a diventare un farmaco è sottoposta a una lunga serie di studi, una sperimentazione, la cui durata va dai 7 ai 10 anni in media e viene svolta dal proprietario del farmaco, in genere l’azienda farmaceutica che decide di crearlo. 

La sperimentazione può essere preclinica, la fase iniziale in cui si fanno dei test in laboratorio e poi su modelli animali, oppure clinica, in cui i test vengono effettuati sull’uomo. Gli obiettivi della sperimentazione sono scoprire o verificare gli effetti di un nuovo farmaco o di un farmaco già esistente testato per nuove usi, con l’obiettivo di accertarne la sicurezza o l’efficacia. Ogni studio segue un preciso protocollo, che guida ogni passaggio e i partecipanti, quando accettano di prendere parte alla sperimentazione, devono essere consapevoli di tutti i possibili benefici ed effetti collaterali, firmando un consenso informato. Ogni studio deve essere svolto nel rispetto dei codici etici per proteggere i pazienti e consentire una corretta analisi dei risultati ottenuti.

La sperimentazione di per sé ha diversi attori, semplificabili così:

  1. Il ricercatore: chi conduce lo studio, lo progetta e ne elabora i risultati;

  2. I medici sperimentatori, che somministrano il farmaco e monitorano i pazienti;

  3. Il gruppo di studio: le persone a cui viene somministrata la molecola in esame e studiati gli effetti;

  4. Il gruppo di controllo: non sempre presente, è il gruppo a cui non viene somministrata la molecola in esame: può essere somministrato un placebo (cioè una sostanza che non ha alcuna attività) o un’altra molecola di confronto (un altro farmaco già sperimentato per la stessa malattia).


Gli studi possono avvenire in cieco o in doppio cieco, per evitare che ci siano degli errori nell’analisi dei risultati (chiamati tecnicamente “bias”) legati al sapere chi riceverà il farmaco e chi no: nel primo caso solo i pazienti sono ignari di chi riceve il farmaco nuovo oppure il placebo/farmaco già testato, nel secondo caso anche il medico sperimentatore non sa cosa sta somministrando a chi. Solo il ricercatore che analizzerà i dati alla fine conosce chi ha assunto effettivamente il farmaco e chi un placebo o altre sostanze. In questo modo si evita sia ai pazienti che eventualmente ai medici di avere pregiudizi nella valutazione degli effetti e ed essere più oggettivi.

Ma chi controlla le sperimentazioni? Sono diversi in Italia gli enti che si occupano di vigilare sulle sperimentazioni, per assicurarsi che vengano seguite tutte le regole e soltanto i farmaci più sicuri vengano messi in commercio (fuori dall’Italia gli organi di controllo saranno diversi). L'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) si occupa di autorizzare  gli studi e vigila su ogni fase, è presente anche nel network europeo delle Autorità Competenti per le sperimentazioni cliniche e svolge un ruolo di raccordo e di indirizzo su tutti gli aspetti che riguardano i farmaci sperimentali.

L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) dà pareri di tipo consultivo sugli studi e su eventuali modifiche di Fase I, i Comitati Etici danno pareri di merito nelle strutture sanitarie in cui si svolge lo studio clinico, le Direzioni Generali delle strutture sanitarie si occupano di definire i contratti, il network Eudravigilance è contattato per la segnalazione di reazioni avverse serie e inattese durante la sperimentazione e infine i promotori e i ricercatori sono direttamente coinvolti nello svolgimento delle singole sperimentazioni cliniche.


Sperimentazione preclinica

In questa fase il principio attivo viene testato per comprenderne al meglio sia gli effetti sia le possibili tossicità ed effetti collaterali, oltre che le dosi efficaci, ossia quanto farmaco bisogna assumere per avere l’effetto che cerchiamo.

La fase si svolge inizialmente in vitro, ossia in provette insieme a microrganismi e colture cellulari: viene osservato il comportamento della molecola in questo ambiente controllato e valutati i possibili effetti e la modalità di funzionamento a livello cellulare.

Se tutto va bene si passa alla fase in vivo, non ancora però sull’uomo: prima di arrivare quindi alla sperimentazione clinica vera e propria si passa al testare le molecole in modelli animali di malattie umane. Questa fase è fondamentale per fornire i primi dati sul comportamento della molecola sperimentale nell’organismo, valutare quanta ne viene assorbita, se compaiono effetti collaterali o altro.

Quando la fase preclinica è terminata e il farmaco ha passato tutti i test, dimostrando di poter proseguire nel percorso si può passare alla fase in cui si sperimenta il farmaco sull’uomo, ossia la fase clinica. Gli obiettivi di questa fase sono determinare la sicurezza, la tolleranza, e poi l’efficacia di un farmaco, ossia se si raggiunge l’obiettivo desiderato (ad esempio abbassare la pressione).

Come si valuta la tolleranza? Quando un farmaco funziona può provocare anche effetti diversi da quelli per cui è creato e generare i cosiddetti “effetti collaterali” più o meno gravi (vertigini, nausea, secchezza delle fauci, disturbi cardiaci, anemia, emorragia…). Un nuovo farmaco è quindi testato sugli esseri umani solo dopo aver svolto studi tossicologici e farmacologici sugli animali in laboratorio.


La Fase 1 è la prima che viene svolta negli esseri umani, in piccoli gruppi di volontari sani che vengono durante la sperimentazione ricoverati in ospedale per seguirli da vicino (è assolutamente vietato accettare compensi per questo genere di sperimentazioni in Italia) e ha l’obiettivo di valutare la sicurezza e la tollerabilità, questa volta nell’uomo. In questa fase non si valuta ancora se il farmaco funziona o no, si valuta semplicemente come viene assorbito dall’organismo, la sicurezza ed eventuali effetti collaterali. I volontari sono divisi in gruppi e a ogni gruppo si danno dosi diverse di farmaco, per valutare gli effetti quando la dose aumenta; quando si sperimentano farmaci per patologie molto gravi per cui non c’è ancora una cura efficace in questa fase possono per necessità essere coinvolti già soggetti malati. Questa fase dura da qualche giorno a pochi mesi.


Quando il farmaco supera la fase 1 (circa nel 70% dei casi) si passa alla Fase 2, che inizia a valutare effettivamente l’efficacia, cioè la capacità del farmaco di ottenere l’obiettivo che cerchiamo, ad esempio abbassare la pressione. In questa fase si capisce anche a quale dose (sicura) il farmaco ha degli effetti benefici sulla malattia. Dovendo testare l’efficacia per una specifica patologia in questa fase i soggetti coinvolti sono sempre volontari ma che presentano la patologia per cui il farmaco è stato pensato, in genere i numeri di persone sono ancora piccoli, da 10 a 40 pazienti coinvolti. Anche in questo caso i volontari sono divisi in gruppi a cui vengono somministrate dosi diverse del farmaco e, quando è possibile (vedi sopra) un placebo, per valutare l’effetto del farmaco rispetto all’assenza di terapia. Per non influenzare le aspettative dei partecipanti gli studi con il placebo sono sempre almeno in cieco, talvolta anche in doppio cieco.


Quando si vuole testare una molecola già conosciuta per trovare nuovi effetti diversi da quelli per cui la molecola è stata messa in commercio è necessario comunque effettuare nuovi studi per valutare se questa funzioni correttamente anche per altri usi. Essendo però una sostanza già nota, non è necessario attraversare le prime fasi e si parte direttamente dalla fase 2.

Questa fase dura in genere un paio di anni, circa ⅓ dei farmaci in studio superano sia la prima che la seconda fase e passano così alla fase 3, in cui si valuta la dose minima efficace del farmaco e i benefici del nuovo farmaco rispetto ad altri già esistenti.

Nella Fase 3 dello studio l’obiettivo è appunto determinare l’efficacia del farmaco, se può dare effetti migliori rispetto ad altri farmaci simili in commercio e il rapporto rischio/beneficio (cioè il rapporto tra possibili effetti collaterali e il beneficio che dà per trattare la malattia). In questa fase dello studio i numeri sono alti: dalle centinaia alle migliaia di persone coinvolte. Si valuta l’efficacia del farmaco sui sintomi, sulla qualità della vita o sulla sopravvivenza facendo un confronto tra il placebo, altri farmaci oppure nessun trattamento a seconda della situazione.

In questa fase ai pazienti viene assegnato casualmente (random) o il nuovo principio attivo da testare o un farmaco di controllo (in genere il trattamento già usato per la patologia oggetto della ricerca) ed è molto affidabile nel definire l’efficacia di un medicinale, perché permette di confrontare le due situazioni valutando ad esempio se il nuovo farmaco controlla meglio la pressione rispetto alla terapia già esistente. Essendo divisi in maniera casuale le eventuali differenze tra la nuova terapia e quella “vecchia” possono essere effettivamente associate al diverso farmaco e non ad altre caratteristiche specifiche. Ad esempio, se dividessimo i gruppi in base all’età dei pazienti le differenze potrebbero essere anche dovute a questo fattore, se invece dividiamo in maniera casuale eliminiamo tutto ciò che può confondere i risultati.

Si monitorano gli effetti collaterali, la loro insorgenza, gravità e durata. È una fase lunga, la somministrazione del farmaco può durare mesi anche se questo dipende dagli obiettivi desiderati. Il monitoraggio degli effetti invece dura in genere da 3 a 5 anni. Dal 70 al 90% dei farmaci che arrivano alla fase 3 riescono poi a superarla e ad essere messi in vendita (Fase 4).


Quando infine il nuovo farmaco ha dimostrato un’efficacia sufficiente in rapporto agli eventuali rischi (rapporto rischio/beneficio), tutti i dati vengono inviati all’autorità competente (per l’Italia l’AIFA), per richiederne la registrazione e l'autorizzazione al commercio.

La Fase 4 viene chiamata di farmacovigilanza. In questa ultima fase di sperimentazione clinica il farmaco è ormai approvato ed è sul mercato: è detta quindi “sorveglianza post marketing”. Questa fase dura anni, e tramite un processo di sorveglianza preciso e tramite le segnalazioni da parte dei medici e dai pazienti vengono rilevate nuove informazioni e soprattutto quelle reazioni avverse molto rare che i numeri degli studi non potevano rintracciare ma che l’utilizzo di massa fa emergere. Durante le fasi precedenti i numeri di persone che hanno sperimentato la molecola non sono sicuramente paragonabili al numero di persone che assumeranno il farmaco una volta messo sul mercato: questo fa sì che alcuni effetti collaterali (o anche benefici) del farmaco potrebbero non essere identificati nelle prima fasi. Una volta che il farmaco viene venduto aumentano le persone che lo assumono e quindi statisticamente anche i possibili effetti collaterali o positivi. Per questo, durante questa fase e i generale ogni volta che si assume un farmaco nuovo, è importante segnalare eventuali eventi avversi inaspettati (non scritti sul foglietto illustrativo) al proprio medico, che provvederà a segnalarli agli organi di competenza. In questa fase quindi si confronta il farmaco con altri prodotti già presenti sul mercato, si valutano gli effetti a lungo termine sulla qualità della vita e il rapporto costo-beneficio rispetto ad altri farmaci.

Questa fase può durare anche anni e periodicamente si rivaluta l’autorizzazione alla vendita.


I risvolti economici dell’industria del farmaco

Una volta messo in commercio il farmaco, l’azienda che lo ha prodotto e ha investito nella fase di sperimentazione ha chiaramente interesse a richiedere il brevetto fin dalla scoperta del principio attivo. 

Questo è lo strumento giuridico che dà il diritto esclusivo di sfruttamento di un’invenzione in un determinato territorio, solo  chi possiede il brevetto può produrre e vendere la sostanza brevettata. Per i farmaci il brevetto ha una durata di 20 anni, quando questo scade allora il farmaco potrà essere prodotto e venduto anche da altre aziende, come farmaco generico. Il farmaco generico, quindi, è un farmaco equivalente a quello creato in origine, che però non è più coperto da brevetto e si differenzia soltanto per il nome con cui viene venduto. Chiaramente anche i farmaci generici devono essere autorizzati dalle stesse autorità dei farmaci che sono stati brevettati in origine, sono efficaci alle stesse dosi dei farmaci originali e sono sicuri allo stesso modo. Essendo però delle molecole che non sono più nuove, ma che hanno già seguito tutte le fasi della sperimentazione, non devono essere nuovamente testati: devono soltanto dimostrare che una volta assunti la quantità di farmaco che raggiunge il nostro organismo è la stessa dell’originale (con una tolleranza in eccesso o in difetto del 20%). Questo assicura che il farmaco generico abbia gli stessi effetti sulla patologia e sia sicuro da assumere. Non avendo dovuto effettuare tutta la parte precedente ed avendo quindi un costo minore di produzione, per legge devono essere venduti a un prezzo inferiore. Questo per le aziende che producono farmaci è chiaramente un limite: se esiste un farmaco equivalente a quello che produco che però viene venduto a un costo inferiore al mio perdo una parte dei guadagni. Per questo risulta spesso necessario investire altri fondi nella promozione del farmaco in questione.

Quindi, parlando dei risvolti economici legati alla produzione dei farmaci non può essere lasciato fuori un altro elemento: la spesa legata al marketing.

Che si tratti di spese pubblicitarie vere e proprie (advertising di vario livello) o del complesso mondo degli informatori farmaceutici, l’industria farmaceutica spende in marketing quasi il doppio di quanto spenda effettivamente in ricerca e produzione del farmaco. 

Ma chi è l’informatore farmaceutico, o meglio informatore scientifico del farmaco? E’ quella figura che viene assunta appunto per “informare” ossia presentare ai medici le caratteristiche e i vantaggi, così come gli effetti collaterali, di alcuni farmaci, facendo un atto di promozione degli stessi e invogliano i medici a prescriverli, preferendoli rispetto ad altri. Chiaramente questo pone una serie di problemi e risvolti di tipo etico, nella scelta del medico di prescrivere un farmaco piuttosto che un altro, e in quest’ottica si parla del cosiddetto Conflitto di Interessi. Sebbene in Italia e in Europa non sia permessa la pubblicità di farmaci non da banco (quella che viene chiamata DTCA, pubblicità diretta al consumatore), resta comunque una grossa parte dei costi legata alla promozione diretta al medico. Tutto il materiale informativo, i gadgets, il training che viene fatto agli informatori farmaceutici va ad alzare il costo complessivo del farmaco non però per elementi legati ad un suo effettivo miglioramento o alla ricerca.

In Italia tuttavia lo stesso codice deontologico pone delle regole al rapporto tra medico e informatore scientifico del farmaco: questo rapporto non può interferire con il rapporto con i pazienti e gli orari di lavoro, inoltre i medici non possono ricevere materiale promozionale, vantaggi di qualunque tipo se non di valore trascurabile (a differenza di quanto accade in altri Paesi), proprio per limitare quel senso di “gratitudine” che potrebbe influire poi sulla prescrizione.

Ma stavamo parlando di come nasce un farmaco: come l’economia del farmaco può andare a impattare sulla ricerca? Banalmente, la ricerca per poter essere messa in piedi richiede soldi: già da questo (e dal discorso precedente sui farmaci orfani) si capisce quanto potere possano avere le aziende del farmaco sulla salute delle persone. Buona parte degli articoli è realizzata da ricercatori “nel libro paga” delle aziende farmaceutiche (basta andare a vedere la sezione “Conflitto di interessi”, obbligatoria negli articoli scientifici). 


Farmaci orfani

Esistono sostanzialmente tre situazioni in cui si parla di farmaci orfani:

  1. Molecole destinate al trattamento delle malattie rare: malattie molto gravi senza una cura efficace. Sono malattie che colpiscono meno di una persona su 2000 in Europa, spesso nell’infanzia o alla nascita. 

  2. Molecole ritirate dal mercato per ragioni economiche e terapeutiche: ad esempio la talidomide. Venne presentata come ipnotico molti anni fa, ritirata dal mercato perché causava malformazioni fetali molto gravi. Ha però dimostrato effetto antidolorifico in malattie come lebbra e lupus eritematoso sistemico.

  3. Molecole che non vengono sviluppate perché derivano da processi di ricerca non brevettabili o perché riguardano mercati importanti ma non redditizi (ad es. malattie prevalenti nei paesi a basso e medio reddito, paesi del Terzo Mondo).


Non si possono lasciare esclusi dai progressi della scienza i pazienti affetti da malattie rare perchè hanno lo stesso diritto alla salute di altri malati.

Al fine di stimolare la ricerca e lo sviluppo nel settore dei farmaci orfani, le autorità hanno adottato degli incentivi per le industrie, la sanità e le biotecnologie. Negli USA si inizia nel  1983 con l’adozione dell'Orphan Drug Act, e poi in Giappone e in Australia nel 1993 e 1997; l'Europa ha seguito nel 1999 istituendo una politica per i farmaci orfani unificata per tutti i Paesi.

Al momento in Europa i farmaci orfani devono rispettare queste caratteristiche:

1) indicati per una patologia che mette in pericolo la vita del paziente o che sia debilitante in modo cronico;

2) indicati per una condizione clinica rara (una prevalenza di non più di 5 soggetti ogni 10 mila individui a livello della Unione Europea);

3) non devono essere disponibili trattamenti validi alternativi o comunque il nuovo farmaco deve rappresentare un beneficio clinico significativo.


Speriamo di aver chiarito qualche dubbio sul complesso mondo delle sperimentazioni, dei farmaci orfani e del conflitto di interessi! Per qualsiasi dubbio potete scriverci alla mail icaroe.team@gmail.com o contattarci tramite la sezione “contatti” di questo sito o le nostre pagine instagram e e facebook!

A presto


Il team di Icaroe



FONTI





42 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


bottom of page