Fino agli anni ’90, la medicina era considerata un campo neutro in termini di sesso e genere e si riteneva che le uniche differenze di interesse clinico tra soggetti di sesso diverso fossero quelle legate alla sfera riproduttiva, pertanto limitate ad organi genitali e ormoni sessuali. Si trattava però di un equivoco scientifico, che per decenni è stato posto a giustificazione di una visione androcentrica delle medicina, la quale ha portato fino a pochissimo tempo fa ad indagare qualunque aspetto della fisiologia, della patologia e della terapia solamente su soggetti di sesso maschile, un po’ per comodità e un po’ per pregiudizio. In realtà per alcuni aspetti il sesso femminile è biologicamente più complesso di quello maschile, basti pensare alle variazioni ormonali cicliche presenti per un periodo molto consiste della loro vita, ma anche alle caratteristiche peculiari di gravidanza e menopausa. Tuttavia, l’approccio della medicina ad ogni ambito di ricerca mutuava di fatto dall’ambito sociale la discriminazione nei confronti delle donne, da sempre perpetrata nei confronti del cosiddetto “secondo sesso” in maniera più o meno velata. Tale discriminazione si fonda sull’asimmetria delle relazioni sociali di genere e penalizza, a qualunque latitudine, donne, ragazze e bambine - solo attraverso un lungo percorso atto alla presa di coscienza di questa realtà si maturerà l’idea che soltanto approcciando prevenzione, diagnosi e cura tenendo conto anche delle differenze sessuali e di genere si potrà garantire equità di accesso alla salute e appropriatezza dell’intervento sanitario. Invece, fino a pochi anni fa le procedure e i protocolli di riferimento nella pratica clinica - ancora adottati nella maggior parte delle Aziende ospedaliere in mancanza di ulteriori evidenze scientifiche - risultavano invariabilmente costruiti sul modello maschile, perdendo in molti casi di validità quando applicati ai soggetti di sesso femminile: da ciò derivavano comportamenti clinici distorti, ricoveri ospedalieri impropri, risposte terapeutiche inadeguate, maggior frequenza di effetti avversi ai farmaci e maggiori tassi di mortalità per i soggetti di sesso femminile. Ma se alcune patologie venivano esclusivamente studiate sui soggetti di sesso maschile, è anche vero che altre sono state attribuite principalmente ai soggetti di sesso femminile (ad esempio la depressione e l’osteoporosi), da cui è dipesa la tendenza a studiarle soltanto su questa popolazione; in generale, si può ritenere che la medicina fino agli ’90 abbia fondato le proprie ricerche in ambito clinico su uno stereotipo di genere, escludendo sistematicamente un sesso nell’indagine di ognuna delle patologie studiate, quello ritenuto meno rilevante per la specifica patologia - nella maggior parte dei casi il sesso femminile. Ciò ha portato chiaramente ad ingiustizie sanitarie nei confronti non solo del sesso femminile, escluso d’ufficio nella quasi totalità degli ambiti di ricerca, ma anche del sesso maschile in casi più rari, compromettendo in ultima analisi accesso alle cure e utilizzo dei servizi sanitari.
Si cominciò a parlare di medicina di genere, nota allora come “questione femminile”, solo a partire dal 1991: in quell’anno infatti B. P. Healy - cardiologa americana allora direttrice del National Institute of Health (NIH), nonché prima donna a ricoprire tale incarico – pubblicò sul New England Journal of Medicine (NEJM) un editoriale in cui illustrava la situazione di discriminazione perpetrata nei confronti delle pazienti di sesso femminile presso l’Istituto di cardiologia da lei diretto; Healy evidenziò come, rispetto ai pazienti di sesso maschile, esse fossero meno frequentemente coinvolte negli studi clinici e sottoposte a ricoveri ospedalieri, interventi chirurgici, terapie e indagini diagnostiche. Per descrivere tale fenomeno, Healy parlò di Yentl Syndrome, concetto mediante il quale voleva indicare una impari gestione dei pazienti di sesso maschile e delle pazienti di sesso femminile nell’ambito della cardiologia; per coniare questo appellativo, la cardiologa prese in prestito dalla letteratura il personaggio di Yentl, descritto da Isaac B. Singer in “Yentl, lo studente della yeshiva”: in quest’opera letteraria, Yentl era una ragazza che per poter accedere alla scuola ebraica e studiare il Talmud era stata obbligata a rasarsi i capelli e vestirsi da uomo. A partire da questa osservazione venne avviata una fervente discussione relativa all’impatto del sesso e del genere di un soggetto su salute e malattia, tanto che questi due elementi arrivarono ad essere identificati come determinanti di salute. Tuttavia, a sottolineare la sottovalutazione per molto tempo di tali determinanti di salute, alcuni anni dopo rispetto alla pubblicazione di Healy, Noel Bairey Merz – direttrice del Women’s Health Centre al Cedars-Sinai Heart Institute – dirà che non solo la Yentl Syndrome è misconosciuta in ambito medico, ma non viene nemmeno curata.
A partire da questa constatazione, il sesso – considerato una componente biologica – e il genere – considerato una componente socioculturale – cominciarono ad essere ritenuti degli elementi imprescindibili nell’analisi della fisiologia, della fisiopatologia e della patologia di un individuo, proponendo una rivoluzione dell’approccio a salute, malattia e risposta alle terapie rispetto ai decenni precedenti: grazie a queste nuove evidenze diventò chiaro che non si potesse applicare alla medicina solo una visione biologica, ma si dovessero considerare anche componenti sociali, culturali, psicologiche, politiche e ambientali. Fu lo stesso Institute of Medicine nel 2001 a raccomandare di distinguere i termini “genere” e “sesso” anche in ambito sanitario in ragione delle diverse implicazioni possedute da ognuno dei due termini. In quest’ottica, la medicina di genere è nata con il proposito di analizzare la differenza sussistente tra soggetti di sesso femminile e soggetti di sesso maschile per quanto riguarda insorgenza, decorso, manifestazione clinica (segni e sintomi), trattamento e cura delle patologie per permettere la definizione di percorsi preventivi, diagnostici, terapeutici e assistenziali adeguati alle caratteristiche di ciascun paziente relativamente a sesso e genere ed ha inoltre consentito di combattere contestualmente alcune disuguaglianze e ingiustizie sociali con il fine ultimo di perseguire il rispetto del diritto alla salute per tutti. Pertanto, parlare di medicina di genere non significa osservare la differente frequenza con cui le patologie note insorgono in soggetti di sesso femminile e in soggetti di sesso maschile e non significa nemmeno focalizzare l’attenzione clinica nei confronti dei due sessi sulle differenze legate all'apparato genitale e quindi alla riproduzione; parlare di medicina di genere significa analizzare la modalità con cui le malattie di tutti gli organi e sistemi si manifestano nei soggetti di sesso femminile e nei soggetti di sesso maschile, analizzando le differenze che sussistono in termini clinici nell'intero decorso della patologia, a partire dalle fasi della prevenzione per arrivare alle fasi del trattamento e della riabilitazione. Sarebbe tuttavia concettualmente scorretto pensare alla medicina di genere come ad una branca a sé stante della medicina, al pari ad esempio di endocrinologia, pneumologia e nefrologia: la medicina di genere deve essere considerata un approccio alla medicina, trasversale rispetto alle specialità di cui si compone la medicina stessa, nell’ambito di ciascuna delle quali trova applicazione e possiede rilevanza scientifica; per questo motivo sarebbe più opportuno parlare di medicina genere-specifica, così da sottolineare l’importanza di adottare un approccio di genere all’analisi di qualunque aspetto di interesse clinico – in tal senso la medicina di genere si configura quindi come una scienza multidisciplinare.
Moltissime patologie sono influenzate, in almeno alcune se non tutte le loro caratteristiche, da sesso e genere del paziente e afferiscono a varie specialità mediche che includono la cardiologia, la pneumologia, l’endocrinologia, l’immunologia, l’ortopedia, la geriatria, l’oncologia, la psichiatria e la trapiantologia. Grazie all’introduzione della medicina di genere nel panorama scientifico si è inoltre realizzata una delle forme più efficaci e al contempo più generiche della medicina personalizzata, che si propone come obiettivo la definizione di un approccio clinico plasmato appositamente sulle caratteristiche di ciascun paziente.
Differenze di genere negli stili di vita
Un aspetto di grande rilevanza in termini di salute, e che risulta largamente influenzato da sesso e genere, è rappresentato dallo stile di vita: nell’ambito di tale concetto generalmente vengono inclusi fumo di tabacco, assunzione di alcool, alimentazione e attività fisica che nel tempo si è notato assumano caratteristiche notevolmente differenti in soggetti di sesso femminile e soggetti di sesso maschile. La rilevanza in ambito medico dello stile di vita è legata perlopiù al fatto che costituisce un determinante di salute modificabile, pertanto il paziente può agire su di esso con degli interventi modificativi o trasformativi al fine di ridurre il rischio di sviluppare una patologia o di rallentarne il decorso a seguito della sua insorgenza. Tuttavia, nonostante gli stili di vita siano legati in larga parte a scelte individuali, queste sono ampiamente condizionate dal contesto socioeconomico e ambientale in cui vive il soggetto. Ma in cosa consistono le differenze di genere negli stili di vita?
Fumo di tabacco: i soggetti di sesso femminile tendenzialmente sviluppano meno frequentemente l’abitudine tabagica, tendono ad usare sigarette con contenuto di nicotina inferiore e ad inalare meno profondamente rispetto ai soggetti di sesso maschile. Tuttavia i soggetti di sesso femminile sviluppano dipendenza dal fumo di tabacco più facilmente e sviluppano con maggior frequenza i danni causati dal fumo di tabacco, poiché possiedono minori quantitativi di fattori protettivi in grado di eliminare i prodotti tossici generati dalla combustione. Nel Mondo si stima che siano fumatori il 31% dei soggetti di sesso maschile e il 6% dei soggetti di sesso femminile, ma il divario di genere nella prevalenza dell’abitudine tabagica si riduce fortemente passando dagli adulti agli adolescenti – in Italia, il fumo di tabacco è un vizio omogeneamente diffuso, con la prevalenza più bassa nei soggetti di sesso maschile al Nord e nei soggetti di sesso femminile al Sud;
Assunzione di alcool: i soggetti di sesso femminile tendenzialmente consumano un minor quantitativo di alcolici rispetto ai soggetti di sesso maschile, tuttavia sviluppano una dipendenza dall’alcol più facilmente e subiscono per un periodo di tempo più lungo l’effetto di una sola dose di alcol; questo perché nei soggetti di sesso femminile gli enzimi che metabolizzano l’alcol sono meno espressi pertanto, a parità di dose assunta, l’alcol persiste all’interno del sangue per un periodo di tempo più lungo. Alcuni studi hanno suggerito il fatto che la tendenza dei soggetti di sesso femminile ad assumere dosi inferiori di alcol rispetto ai soggetti di sesso maschile può essere particolarmente condizionata da fattori sociali che includono la disapprovazione della società nei confronti del rapporto donne-alcol nonché il maggior rischio di subire aggressioni fisiche e sessuali quando in preda agli effetti dell’alcol;
Alimentazione: i soggetti di sesso femminile tendenzialmente hanno una dieta più salutare soprattutto in ragione dei canoni di bellezza imposti dalla società a cui si ritiene che la donna, al contrario dell’uomo, non possa sfuggire al fine di affermare il suo valore. I soggetti di sesso femminile in genere consumano maggiori quantitativi di frutta, verdura, pesce e latticini acidi (ad esempio lo yogurt) rispetto ai soggetti di sesso maschile, mentre quest’ultimi sono i consumatori preferenziali di carne e alcolici e in generale assumono porzioni di cibo più corpose. Inoltre, i soggetti di sesso femminile mostrano una maggior tendenza a prediligere cibi salutari e sono più attenti ai comportamenti alimentari che possono ostacolare la conservazione di una buona forma fisica. Infine, nonostante siano i soggetti di sesso maschile i più costanti nel seguire dei regimi dietetici, sono i soggetti di sesso femminile a sembrare più pronti a modificare le proprie abitudini alimentari;
Attività fisica: i soggetti di sesso femminile tendenzialmente svolgono meno attività fisica in qualunque fascia d’età, pertanto sono i principali contribuenti al 9% della mortalità prematura nel Mondo causata dall’inattività fisica. Le stime del 2008 riportavano che a livello globale il 31% delle persone di età > 15 anni svolgeva attività fisica in quantità insufficiente e nello specifico a tale percentuale contribuivano il 28% dei soggetti di sesso maschile e il 34% dei soggetti di sesso femminile – in Italia la percentuale di persone di età > 15 anni reputata non sufficientemente attiva sale al 55% ma non sono disponibili dati genere-specifici in materia.
Le differenze che sussistono tra soggetti di sesso femminile e soggetti di sesso maschile possono essere in parte dettate dal fatto che le divergenze biologiche definite dal sesso determinano differenti esigenze fisiologiche, mentre le divergenze socioculturali, economiche e ambientali definite dal genere determinano differenti comportamenti da cui dipende una diversa esposizione a fattori di rischio. La medicina di genere trova ampia applicazione relativamente allo stile di vita in quanto si propone di favorire una maggior diffusione della salute non solo agendo sulle malattie in sé, ma anche sui fattori modificabili che stanno a monte delle stesse, tra cui lo stile di vita rientra a pieno titolo.
BIBLIOGRAFIA
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Maciocco, G. I determinanti della salute. Una nuova, originale cornice concettuale. https://www.saluteinternazionale.info/2009/01/i-determinanti-della-salute-una-nuova-originale-cornice-concettuale/, 2009
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