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Immagine del redattoreTeam Icaroe

QUANDO LA MEDICINA È TROPPA

Nella nostra cultura, “fare di più” ha spesso una connotazione positiva, fare qualcosa è pur sempre meglio di non fare niente: ma siamo sicuri che anche in ambito medico e di salute sia sempre così?


Cos’è la prevenzione

Iniziamo dalle basi. Comunemente, con la parola “prevenzione” si intendono quegli interventi volti a ridurre il rischio di sviluppare una malattia, ma questo è solo un tipo di prevenzione.

Nel tempo la medicina ne ha identificati quattro tipi:

  1. La prevenzione primaria, che ha l’obiettivo di prevenire l’insorgenza di malattie su persone senza sintomi e senza malattia (ad esempio, le vaccinazioni e le campagne di sensibilizzazione contro il fumo di sigaretta);

  2. La prevenzione secondaria, rivolta invece a persone senza sintomi ma con una patologia o con un rischio alto di sviluppo con lo scopo di farne diagnosi precoce (ad esempio, gli screening come il Pap test per il tumore al collo dell’utero e la ricerca di sangue occulto nelle feci per il tumore al colon);

  3. La prevenzione terziaria, per evitare le complicanze di malattie già presenti e ridurne la gravità e le recidive (per esempio gli interventi di riabilitazione motoria e il supporto psicologico);

  4. La prevenzione quaternaria, che è invece la prevenzione degli interventi medici non necessari e in eccesso che potrebbero ledere la salute della persona.

Se le prime tre sono piuttosto chiare e conosciute, è invece necessario approfondire il concetto di prevenzione quaternaria, termine che è stato inserito solo nel 2003 nel Dizionario della Medicina di Famiglia.

Si basa sul principio medico “primum non nocere” (“per prima cosa, non nuocere”) e sulla consapevolezza che, con l’avanzamento tecnologico e una sempre maggiore ricerca di benessere della nostra società, siano aumentate a dismisura le procedure diagnostiche a cui ci sottoponiamo e le terapie e i trattamenti che facciamo. L’obiettivo della prevenzione quaternaria è quindi quello di individuare i pazienti a rischio di essere sottoposti a interventi medici inutili o dannosi, e di offrire alternative coerenti con le caratteristiche cliniche, sociali e psicologiche del paziente.

Una corposa letteratura scientifica dimostra che ci sono effetti collaterali in quel modo indiscriminato di intendere e praticare la medicina, che è stato chiamato ipermedicalizzazione.




Il fenomeno dell’ipermedicalizzazione


Consideriamo l’esempio di un signore di 65 anni in salute, che sente dire in televisione che gli uomini della sua età hanno un alto rischio di sviluppare tumore alla prostata e, quindi, nonostante non abbia alcun sintomo, è preoccupato e vorrebbe fare qualche esame.

Il suo medico dovrebbe prescrivergli un test specifico oppure no?


Il medico potrebbe decidere di fargli fare il test per rassicurare il paziente da un lato e, dall’altro, mettersi al riparo da possibili accuse di negligenza. Fare “il più possibile” sembra decisamente meglio che non fare nulla.


La maggior parte degli esami richiesti con queste premesse darà risultati normali; ma alcuni daranno risultati borderline (cioè a cavallo tra normalità e anormalità) o falsi positivi, a cui seguiranno ulteriori esami diagnostici e prescrizioni di terapie di efficacia non provata e con effetti collaterali invece ben noti.


Alcuni programmi di screening sono in grado di identificare patologie molto precoci che non avrebbero mai dato sintomi al paziente né gli avrebbero causato infermità, così come molti test diagnostici possono rilevare anormalità così piccole che sarebbero rimaste benigne; oggi il restringimento dei parametri di salute comporta che sempre più persone ricevano diagnosi di malattia e terapie a lungo termine da cui non avranno alcun beneficio.


Questo è un problema di salute sia per i singoli pazienti, che si sottopongono a trattamenti non utili e che possono avere effetti collaterali, sia per la società, per lo spreco di risorse. È quindi necessario che il tema dell’appropriatezza degli interventi medici raggiunga la popolazione generale.


La branca della medicina preventiva nacque nella prima metà del ventesimo secolo in risposta a una medicina considerata allora troppo focalizzata sulla cura delle malattie, e aveva lo scopo di rivoluzionare l’approccio dei professionisti verso un prendersi cura delle persone prima che si ammalassero. Questo approccio ha però portato, più recentemente, a una forte medicalizzazione della vita quotidiana, dell’idea di salute: l’ipermedicalizzazione trasforma potenzialmente una schiera di individui asintomatici in pazienti, e causa lo spostamento di risorse verso persone che sono più sane e, generalmente, più giovani e più benestanti, invece di destinarle a chi ne ha davvero bisogno.

Per dare un’idea del problema, è stimato che quasi la metà delle visite fatte negli Stati Uniti siano visite di controllo, e intanto molte persone non hanno accesso alle cure essenziali.


Facciamo qualche esempio

Sono molti gli ambiti e le patologie in cui l’ipermedicalizzazione è stata studiata e riconosciuta:

  1. Tumore alla tiroide: trovare anormalità in questa ghiandola è molto comune, ma il rischio per la salute è basso. Sottoporre questi pazienti a trattamento significa esporli al rischio chirurgico o farmacologico senza che ne abbiano benefici in termini di salute

  2. Diabete gestazionale: nel 2010 venne raccomandato l’abbassamento della soglia di diagnosi, raddoppiando il numero di gravide considerate malate; questo fenomeno è detto “overdiagnosi”

  3. Uno studio canadese riporta che il 30% delle persone con diagnosi di asma potrebbero non essere effettivamente asmatiche (ma affette da altre patologie respiratorie) e che la maggioranza di questi non richiederebbe una terapia. L’asma è però contemporaneamente sottodiagnosticata o non trattata in alcuni casi, per via della poca consapevolezza sulla malattia, che causa in questi pazienti un ritardo diagnostico importante

  4. ADHD (disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività): anche per questo disturbo sono stati ampliati i criteri, portando a molti casi di overdiagnosi. I bambini nati verso la fine dell’anno hanno infatti il 30% di probabilità in più di ricevere diagnosi di ADHD rispetto a quelli nati a inizio anno, con conseguente medicalizzazione e relativo trattamento, perché la loro maggiore immaturità viene talvolta scambiata per un disturbo. La diagnosi tende inoltre a etichettare il bambino per molti anni a venire.

  5. Ipertensione (pressione alta) e ipercolesterolemia (colesterolo alto): anche per questi si stima una forte overdiagnosi, con conseguenti terapie che non apportano benefici concreti ai pazienti.

  6. Cancro alla prostata: si stima che il test del PSA (antigene prostatico specifico) causi overdiagnosi in più del 60% dei casi

  7. Lombosciatalgia (dolore alla zona lombare della schiena e al gluteo): è spesso benigna ma preoccupa i pazienti, e questo può spingere i medici a prescrivere esami strumentali importanti, ad esempio la risonanza magnetica, sapendo già che il referto sarà normale

Questi sono solo alcuni esempi che sono stati studiati e riconosciuti, ma è probabile che ne verranno scoperti altri quando l’appropriatezza della medicina diventerà centrale nel dibattito sulla salute.


Probabili cause


Le probabili radici di questo fenomeno sono cinque: il fattore culturale, il sistema sanitario, l’industria, i professionisti, e infine i pazienti e la popolazione generale.


Il primo motivo è che culturalmente consideriamo meglio fare di più piuttosto che fare meno, perché il paziente è più soddisfatto, si sente ascoltato, e il medico evita il rischio di ripercussioni legali: i professionisti della salute vengono sanzionati se non riconoscono precocemente una malattia e non viceversa, se fanno sovradiagnosi. Questo elemento culturale è stato confermato anche da alcuni studi: si è osservato che i pazienti erano rassicurati da un numero maggiore di test e trattamenti, anche quando potevano associarsi a maggiori rischi di effetti collaterali.


La promozione di test diagnostici sempre più sensibili e precisi viene comunemente visto come un progresso positivo della scienza medica e sia la popolazione sia i medici in formazione non sono sufficientemente informati e formati per riconoscerne i possibili risvolti negativi. C’è infatti una forte fiducia collettiva nei benefici degli screening e della diagnosi precoce: benché questo sia importante - perché la prevenzione salva ogni anno moltissime vite - è importante trovare un equilibrio e non essere ossessionati dalla paura di una malattia non diagnosticata o non diagnosticata in tempo.

La paura dell’invecchiamento, della morte e della malattia contribuisce a questo fenomeno e spinge alla ricerca di risposte e soluzioni nella medicina, anche quando questa non può darle.


L’errore e l’incertezza sono difficilmente tollerati, con tutte le storture che questo comporta.

Inoltre, spiegare i rischi legati all’ipermedicalizzazione, che ha molte sfaccettature (dalla sovradiagnosi all’overtrattamento), non è semplice e richiede una forte alleanza medico-paziente; tuttavia, i tempi sempre più ristretti delle visite, legati ad un sistema che si basa sul numero delle prestazioni più che sulla qualità delle stesse, limita questo tipo di comunicazione.


Infine, i membri delle commissioni che decidono le definizioni e i parametri delle malattie e delle terapie hanno talvolta conflitto di interessi, in quanto legati ad aziende che fanno profitto nell’ambito della sanità. Allo stesso modo, anche alcuni professionisti della salute possono far parte di organizzazioni o associazioni che beneficiano di un aumento della popolazione “malata”. Spesso, poi, le strutture sanitarie ricevono incentivi proporzionali al numero di esami diagnostici e trattamenti che fanno, e questo ne favorisce l’abuso.


Conseguenze


Per le società come la nostra, in cui esiste un servizio sanitario nazionale universalistico, l’ipermedicalizzazione causa un grande spreco di risorse per test diagnostici e terapie inutili, con una riduzione della disponibilità per chi ne ha davvero bisogno. Nei sistemi sanitari a finanziamento privato, invece, questo approccio può essere un fardello economico molto pesante anche per coloro che hanno effettivamente un’assicurazione.

Nonostante la salute sia generalmente molto migliorata nei Paesi economicamente sviluppati - grazie alla riduzione della mortalità per le malattie infettive - paradossalmente le persone spesso si sentono soggettivamente più malate, probabilmente a causa di un conseguente aumento della speranza di vita e, con essa, delle malattie croniche. Se consideriamo il già citato progresso nel riconoscimento precoce degli stati di anormalità, la maggiore attenzione generale verso la salute e l’atmosfera mediatica di apprensione sui fattori di rischio, è facile capire come la percezione del malessere sia aumentata.

Un altro fattore da considerare è che la progressiva medicalizzazione della vita quotidiana ha portato con sé aspettative irrealistiche sull’efficacia della medicina e sulla possibilità di guarigione e prevenzione delle malattie, con una ricerca ossessiva di salute.


Conclusioni


Abbiamo bisogno di più studi per capire cosa la popolazione, i pazienti e i professionisti della salute sappiano sull’overmedicalizzazione e come reagiscano quando informati e formati. Il passo successivo è capire come comunicare efficacemente queste tematiche e come capillarizzare la diffusione delle informazioni per poter, successivamente studiare e applicare possibili soluzioni, sapendo che come per ogni intervento, queste potrebbero danneggiare una minoranza ed è necessario riconoscerlo.

Un’ultima riflessione. Il linguaggio della salute è spesso (come abbiamo potuto notare anche in questa situazione di emergenza sanitaria) preso in prestito dal lessico militare: si “combatte” la malattia e i medici sono “eroi al fronte”, e allora nessun paziente ha il diritto di “arrendersi” e non si può parlare del fatto che, prima o poi, la “battaglia” comunque finirà con la “sconfitta” del malato, non importa quanti test possiamo fare e quante cure possiamo provare. Forse non sappiamo parlare correttamente di malattia perché non siamo in grado di parlare di morte.


Fonti e bibliografia



Articolo in collaborazione con il dottor Nicola Pecora del Movimento Giotto




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