Dopo un inizio di carriera segnato dalle leggi razziali, si è affermata come scienziata e figura di spicco della politica, diventando l’unica donna italiana ad aver vinto il premio Nobel.
Rita e Paola, sua sorella gemella, nascono a Torino il 22 aprile 1909, ultime di quattro figli.
I genitori, entrambi ebrei sefarditi, l padre, Adamo Levi, matematico ed ingegnere elettronico mentre la madre, Adele Montalcini, era una pittrice.
Del forte legame tra Rita e sua madre ci rimangono gli affettuosi racconti autobiografici in cui Montalcini ci racconta come da bambina si sia sempre sentita amata e protetta dalla figura materna. Il padre era un conservatore cresciuto in pieno periodo post-vittoriano e considerava gli uomini come il capo naturale della famiglia. Adamo era convinto che un’educazione universitaria ed una carriera professionale non si addicessero alle donne, poiché avrebbero interferito con il loro ruolo di mogli e madri. Tuttavia, Rita non era portata per la vita che il padre aveva immaginato per lei, come lei stessa ammise nella sua autobiografia:
“L’esperienza che ho vissuto nella mia infanzia ed adolescenza, del ruolo subordinato svolto dalla donna in una società gestita interamente dagli uomini, mi aveva convinto che non ero tagliata per essere moglie; i bambini non mi attraevano, ed ero del tutto priva di senso materno.”
La morte per cancro al colon della sua governante Giovanna, alla quale era estremamente affezionata, le diede la spinta decisiva per ricominciare a studiare: scelse di diventare medico.
Incoraggiata quindi dalla madre, Rita decide di affrontare suo padre per parlargli del suo desiderio di studiare medicina. “Ha obiettato che si trattava di un percorso di studi lungo e difficile, inadatto per una donna” racconta nella sua autobiografia, “Dato che avevo finito la scuola tre anni prima, non sarebbe stato facile riprenderla. Gli ho assicurato che non ne avevo paura”. Dopo qualche rimostranza, ottenne il consenso del padre.
In realtà, il rapporto con il padre non fu mai così difficoltoso come appariva. Ella stessa ammise di aver ereditato molti tratti del suo carattere dal padre, che fin dalla tenera età insegnò alla figlia l'importanza di essere una donna indipendente ed una “libera pensatrice”.
Studia quindi per l’esame di ammissione, che passa con facilità, e si iscrive alla Facoltà di Medicina di Torino nel 1930, all’età di 21 anni. Qui, incontra quello che poi sarebbe diventato il suo mentore, il fisiologo Giuseppe Levi, l'uomo che la introdusse alla sua prima e più grande passione: lo sviluppo del sistema nervoso.
Tra i compagni universitari ci furono anche due futuri premi Nobel, Salvador Luria e Renato Dulbecco. Tutti e tre furono studenti di Giuseppe Levi verso il quale si sentirono in debito per tutta la vita, riconoscendogli il merito di aver insegnato loro un metodo scientifico rigoroso e preciso con il quale affrontare i problemi che la ricerca poneva loro davanti.
Fu quindi grazie agli insegnamenti di Giuseppe Levi che Rita apprese le conoscenze che furono la chiave del suo successo, come la colorazione argentica (la silver-stain sviluppata da Camillo Golgi sul finire del XIX secolo e successivamente perfezionata da Cajal).
Levi-Montalcini si laureò nel 1936, a pieni voti, e decise di specializzarsi in neurologia e psichiatria.
L’esperienza con Giuseppe Levi le aveva fatto capire che il lavoro del medico non era ciò a cui aspirava quindi, durante gli anni della specializzazione, proseguì gli studi iniziati durante la formazione universitaria sulla neurofisiologia sperimentale, concentrandosi sulle connessioni delle cellule nervose e sulla loro formazione.
Le cellule nervose, o neuroni, sono cellule che hanno origine nella colonna vertebrale durante lo sviluppo embrionale. Una parte della cellula nervosa, l'assone, si protende verso l'esterno dalla colonna vertebrale e migra verso la sua destinazione finale, in vari organi e tessuti periferici. L'assone riceve segnali da questi tessuti che vengono poi ritrasmessi al midollo spinale e al cervello.
All'epoca non era noto come i neuroni giungessero nella loro posizione finale e quali processi governassero la loro proliferazione, differenziazione e sopravvivenza. Le tecniche che Levi-Montalcini perfezionò negli anni come allieva di Levi le fornirono una risposta a molte di queste domande.
La sua vita da specializzanda e da ricercatrice venne sconvolta due anni più tardi, nel 1938, quando venne pubblicato il Manifesto della Razza e vennero promulgate le Leggi Razziali, che spogliarono i cittadini ebrei di ogni diritto civile. Le persecuzioni razziali e politiche furono così gravi che Levi-Montalcini fu costretta a trascorrere un breve periodo di tempo in Belgio, dove lavorò come ricercatrice presso l’Istituto di Neurologia. Lì, ritrovò ad assisterla Giuseppe Levi, il suo mentore e fu lì che pubblicò uno dei suoi primi articoli sulla relazione anatomica e funzionale tra centri nervosi e i loro pathway di sviluppo, conducendo esperimenti su embrioni di pollo. Ma anche questa avventura fu molto breve: l’influenza di Hitler in Europa continuava ad ampliarsi e, dopo l’invasione del Belgio, Rita fu costretta a far ritorno a Torino all’inizio del 1940.
Fu a Torino, durante il difficile periodo della guerra, che intraprese le sue prime ricerche in maniera indipendente. Ispirata dalla storia di Cajal, che aveva lavorato per molto tempo da solo in un laboratorio da egli stesso creato a Valencia, allestì un piccolo laboratorio nella sua camera da letto e nella cucina della casa di famiglia. Aveva ormai da tempo individuato quello che sarebbe stato il suo ambito di ricerca: capire come si sviluppano i nervi e in quale modo si indirizzano verso la zona da innervare. Qualche tempo prima si era inoltre imbattuta in un articolo di Viktor Hamburger, un professore di embriologia che, durante i suoi esperimenti, rimuovendo gli abbozzi di arto dagli embrioni di pollo, aveva osservato che i centri delle cellule nervose embrionali presenti nei pressi e all’interno del midollo spinale in via di sviluppo (dove le cellule nervose iniziano il loro sviluppo verso altri tessuti), si atrofizzavano quando si rimuovevano proprio gli abbozzi degli arti.
Hamburger aveva quindi suggerito l’esistenza di un fattore induttivo, probabilmente contenuto nell’arto rimosso, con la funzione di richiamare le cellule nervose.
Rita decise di ripetere l’esperimento utilizzando il metodo silver-staining. Fu estremamente meticolosa: sezionò e colorò embrioni di pollo per ogni fase dello sviluppo, sia quelli con l’abbozzo di arto rimosso, sia quelli intatti, in modo da poter poi fare un confronto.
Contrariamente a quanto si aspettava, osservò che un numero normale di neuroni iniziava lo sviluppo in entrambe le situazioni e che un gran numero di questi neuroni andava incontro alla morte nell’arco di poco tempo (sia negli embrioni sani, sia nei neuroni modificati), provocando l'ipoplasia neuronale già osservata da Hamburger.
Questa situazione era sì più accentuata negli embrioni modificati, ma non esclusiva di quest’ultimi.
Postulò quindi che la morte cellulare fosse una parte normale dello sviluppo neuronale e giunse alla conclusione che il problema non era tanto una mancanza di un fattore induttivo, quanto un fattore pro-sopravvivenza, un fattore di crescita, prodotto dall’abbozzo di arto rimosso, a causa del quale si creava una competizione tra i neuroni in crescita.
La sua teoria differiva da quella di Hamburger perché proponeva che la differenziazione delle cellule nervose avvenisse nonostante la rimozione dell'arto, ma che le cellule morissero troppo presto perché non ricevevano alcun fattore trofico di sostegno. L'arto non contribuiva di per sé alla differenziazione, cioè non conteneva un fattore induttivo; piuttosto, produceva qualcosa che stimolava le cellule nervose già specializzate.
Purtroppo, però, le fu impossibile pubblicare i risultati sulle riviste accademiche italiane in un momento storico così difficile per gli ebrei in Europa perciò, con l’aiuto di Giuseppe Levi, spedì i suoi manoscritti in Belgio dove furono pubblicati nel 1943.
Altre due volte fu costretta ad interrompere le sue ricerche.
Prima per via dei bombardamenti alleati che costrinsero la famiglia Levi-Montalcini a rifugiarsi nelle campagne astigiane, dove proseguì per un breve periodo i suoi studi, ricostruendo il suo laboratorio in condizioni ancora più primitive del precedente ed andando di fattoria in fattoria, in bicicletta, per procurarsi uova fecondate di pollo.
Poi, dopo la firma dell’armistizio del 1943 e l’inizio delle lotte partigiane nel nord Italia, lei e la famiglia furono costrette ad un nuovo trasferimento forzato, questa volta a Firenze, dove rimasero sotto falso nome fino all'agosto del 1944. Dopo che le truppe americane costrinsero i tedeschi a lasciare Firenze, ricominciò a lavorare come medico, aiutando a curare i rifugiati fino al fine della guerra, nel 1945.
Nel 1946 ritornò finalmente a Torino, dove riprese il suo ruolo di assistente di Giuseppe Levi, ruolo che, tuttavia, le andava stretto.
Le cose cambiarono quando Hamburger, che aveva letto i suoi scritti, la invitò a passare un semestre a St. Louis per ripetere gli esperimenti che lei stessa aveva condotto nel suo laboratorio di fortuna. Fu proprio durante uno di quegli esperimenti che accadde qualcosa che fece sì che il suo soggiorno durasse 26 anni, invece che 6 mesi, come preventivato.
Uno degli studenti di Hamburger, Elmer Bueker, stava cercando di capire se qualche tessuto a rapida crescita (ad esempio un tessuto tumorale) potesse attirare le fibre nervose nello stesso modo in cui lo facevano gli arti degli embrioni di pollo.
Aveva quindi innestato un sarcoma di topo in proliferazione all’interno di un embrione di pollo e aveva scoperto che le fibre nervose crescevano ed invadevano molto più velocemente il tessuto sarcomatoso piuttosto che l’arto in formazione dell’embrione. Aveva quindi supposto che la maggior superficie del tumore attraesse in maniera maggiore le fibre nervose.
Ma Rita non era d’accordo.
Aveva notato che, a differenza di quanto accadeva nel corso dello sviluppo embrionale normale, le fibre nervose crescevano in maniera massiccia, quasi selvatica, verso il tumore, in modo completamente disordinato. Era poi sempre più convinta che il tessuto tumorale avesse rilasciato lo stesso tipo di fattore che lei pensava venisse rilasciato anche dagli arti in formazione dell’embrione. Decise di ripetere l’esperimento, ponendo il tumore al di fuori del sacco embrionale, una zona che, anche se fisicamente separata dal resto, condivide la medesima vascolarizzazione dell’embrione.
Fu la svolta che stava cercando: le fibre nervose cominciarono a crescere in maniera quasi selvaggia e, a conferma delle sue ipotesi, era proprio il tumore a rilasciare un fattore che, diffondendosi attraverso il sangue, viaggiava fino all’embrione, dove ne stimolava la crescita. Tutto questo, però, non era sufficiente, in quanto bisognava quantificare la risposta che stava osservando, e solo un laboratorio era in grado di offrirle gli strumenti necessari: il laboratorio di Herta Meyer dell’Università del Brasile, a Rio de Janeiro.
Prese allora due topi con trapianti di sarcomi di topo, li mise nel bagaglio a mano e si recò in Brasile. Lì, attraverso la tecnica della biovalutazione in vitro, potè osservare ciò che si aspettava: i gangli nervosi espiantati dagli embrioni di pollo posti in prossimità (ma non in contatto) ai frammenti di sarcoma di topo, producevano un alone di fibre nervose che si dipanavano dirette verso il tumore.
Inviò quindi diversi disegni ad inchiostro ad Hambuerger, realizzati da lei stessa a mano (segno della forte inclinazione artistica di Levi-Montalcini).
Nel frattempo, Hamburger aveva reclutato un giovane biochimico, Stanley Cohen, perché aiutasse Rita nello studio del fattore trofico che stavano cercando di determinare.
Fu lo stesso Cohen a suggerire l’utilizzo degli inibitori degli acidi nucleici per capire se tale fattore avesse una componente di DNA o RNA, sfruttando il veleno di serpente, noto per la sua proprietà degradante.
L’esperimentò diede risultati opposti: si scoprì che il veleno stesso conteneva il fattore di crescita. Dopo questa scoperta, si capì che che anche le ghiandole salivari di topo erano una fonte di questo fattore e ciò fu fondamentale perché fornì loro ampio materiale per gli esperimenti.
La comunità scientifica non accolse di buon grado queste scoperte, almeno all’inizio. Per molti scienziati era come affrontare un salto nel buio: pensare che una molecola proteica ancora non isolata, proveniente da fonti così diverse e non correlate tra loro (come sarcomi di topo, veleno di serpente e ghiandole salivari di topo) suscitasse un’azione così potente e disgregante sui normali processi neurogenetici, non si adattava a nessun schema concettuale preesistente.
La situazione cambiò quanto nel 1959 Levi-Montalcini e Cohen svilupparono un anti-siero. Questo, andava a bloccare lo sviluppo delle fibre nervose a livello embrionale nel topo e impediva la crescita di quell’alone di fibre nervose che Rita aveva osservato nel corso di tanti anni di esperimenti. Era la prova conclusiva che i tessuti periferici erano responsabili della secrezione di un fattore che influenzava direttamente lo sviluppo e la sopravvivenza neuronale nei mammiferi.
I due scienziati pubblicarono la scoperta nel 1960, chiamando questo fattore Nerve Growth Factor, NGF, il primo di una lunga serie di fattori chemiotattici che verranno poi denominati neurotrofine.
Nel 1971 crollarono anche le ultime sacche di resistenza del mondo scientifico quando, grazie al lavoro di Bradshaw ed Angeletti (unico dottorando che Levi-Montalcini abbia mai avuto), venne sequenziata la struttura proteica del NGF.
La scoperta fu di fondamentale importanza: in precedenza, i neurobiologi non sapevano quali processi intervenissero nella corretta innervazione degli organi e dei tessuti dell'organismo e fu proprio questa scoperta a chiarire, per la prima volta, i meccanismi di accrescimento delle cellule e degli organi.
Questa scoperta ebbe anche un ruolo fondamentale nella comprensione dei meccanismi di malattie come il cancro, l'Alzheimer, il Parkinson, le ulcere oculari, il glaucoma, la maculopatia ed le ulcere cutanee dovute ad altre patologie come il diabete.
Inoltre, sembrano esserci nuove prospettive anche per l'utilizzo del NGF per combattere forme di depressione particolarmente difficili da trattare con i farmaci tradizionali.
Infine, sembra essere anche la prima molecola "degli innamorati". Una ricerca condotta dall’Università di Pavia ha dimostrato che il livello di questa proteina è più alto all'inizio dell'innamoramento e molto più presente in coppie consolidate o nei single.
Una curiosità molto particolare: la stessa Montalcini utilizzò la sua scoperta per curarsi. Aveva sofferto, nel corso dei suoi ultimi anni, di maculopatia (malattia che colpisce la retina e che porta a cecità) e la sua scoperta le aveva consentito di curarsi quotidianamente, impedendo alla malattia di avanzare.
Nel 1986, Rita Levi-Montalcini e Stanley Cohen ricevettero il Premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina, che sottolineò l'importanza del loro lavoro e gli effetti incommensurabili che ebbe su molteplici campi della ricerca scientifica.
Levi-Montalcini fu la quarta donna al mondo a ricevere il premio Nobel e la prima e unica donna italiana, almeno per il momento.
Sebbene amasse molto gli Stati Uniti, la nostalgia di casa era comunque tanta. A partire dagli anni Sessanta, iniziò a viaggiare tra USA e Italia e a Roma il CNR, il principale Istituto di Ricerca in Italia, le costruì un laboratorio. Nel 2002, sempre a Roma, fondò il European Brain Research Institute, EBRI, nato dal suo desiderio di creare un luogo appropriato per l’esplorazione e lo studio delle malattie neurodegenarative.
La sua vita non si fermò alla ricerca scientifica: Levi-Montalcini e sua sorella costituirono una fondazione, tuttora attiva, che fornisce aiuto, consulenza e borse di studio agli adolescenti che hanno il desiderio di cimentarsi in diversi campi di studio (dalla scienza all'arte) ma che non ne hanno la possibilità. Per diverse ore, ogni settimana, era solita ricevere nel laboratorio dell'Istituto di Neurobiologia del CNR di Roma i giovani studenti, con i quali parlava dei loro interessi personali e della loro vita.
A tal proposito, aveva detto “l’unico modo per aiutare è dare ai giovani una possibilità per il futuro. Perché non possiamo combattere la mafia, non possiamo combattere la corruzione senza dare un'alternativa ai giovani”.
Inoltre, la fondazione Rita Levi-Montalcini ha aiutato, fino ad oggi, più di 6000 donne africane nel loro percorso per diventare scienziate.
Le particolarità della sua storia, la lotta contro stereotipi di genere che la videro andare anche contro il volere paterno e la sua straordinaria forza d’animo, le permisero di portare avanti le sue scelte di vita persino durante gli anni della guerra e delle persecuzioni. Come lei stessa ammise, ciò contribuì a farla diventare uno dei personaggi più noti e amati del mondo scientifico.
Emanuele Zola
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